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Massimo Gallo

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UNA NAZIONE EMERGENTE

UNA NAZIONE EMERGENTE

‹‹Il XX secolo si profila di fronte a noi pregno del destino di molte nazioni. Se rimaniamo pigri spettatori, se andiamo in cerca soltanto della tranquillità tronfia e indolente e dell’ignobile pace, se rifuggiamo dalle situazioni difficili nelle quali gli uomini debbono vincere a rischio di tutto ciò che hanno di più caro, allora i popoli più audaci e più forti ci sorpasseranno e conquisteranno il dominio del mondo››.

Queste parole del futuro presidente Theodore Roosevelt (al momento vicepresidente del repubblicano McKinley), pronunciate nel 1899, nel chiudere il secolo sanciscono, in modo quanto mai nitido, l’abbandono da parte degli Stati Uniti di una politica rinchiusa nel proprio continente e annunciano l’avvento di una nuova era: quella che vedrà l’entrata prepotente della giovane potenza economica sulla scena mondiale.

Dopo la fine della guerra civile (1865) gli Stati Uniti vivono un impetuoso sviluppo economico che li pone in breve al vertice del capitalismo mondiale, forti delle immense risorse naturali di cui dispongono, della libertà dai condizionamenti sociali ed economici dell’aristocrazia che impastoiano le società europee, del potente incremento demografico (in gran parte dovuto all’emigrazione dall’Europa), di un’etica capitalista dominante.

Sono soprattutto gli Stati del Nord a essere protagonisti di una tumultuosa crescita delle attività industriali, a fronte degli Stati del Sud dove prevale un sistema socioeconomico imperniato sulla grande proprietà terriera. Il processo verso la creazione di grandi concentrazioni industriali di tipo monopolistico porta all’affermazione di una politica protezionista di cui si fa portabandiera il partito repubblicano, che rappresenta gli interessi della finanza e della grande impresa, mentre il partito democratico raccoglie prevalentemente grandi proprietari, agricoltori e borghesi del Sud.

Lo spirito e l’organizzazione capitalistici diventano un elemento fondante del “modo di vita americano”; i “baroni delle ferrovie” (Gould, Vanderbilt, Hill), i “re dell’acciaio” (Carnegie, Morgan) e i magnati del petrolio (Rockefeller, creatore dello Standard Oil Company) prosperano in una situazione di estremo favore, conseguendo un’enorme forza sociale e politica: sotto la loro direzione il paese assurge al rango della più potente nazione industriale del mondo. Nel 1914 circa un terzo della rete ferroviaria mondiale è in territorio statunitense, mentre quasi due milioni di automobili circolano già sulle strade americane.

Vivi sono anche i contrasti sociali, ma in generale il popolo americano nutre una grande fiducia nelle istituzioni del proprio paese; il partito socialista americano, nato nel 1900, è destinato a rimanere un’entità politica di secondo piano, mentre nei primi anni del secolo il “capitalismo democratico” di Roosevelt, pur non minacciando le basi del potere dei trust, dà al governo un certo margine di intervento sull’economia, limitando la possibilità per le imprese private di agire libere da qualunque controllo.

Portata a termine la colonizzazione dell’immenso territorio della federazione, venuta quindi a mancare la tradizionale valvola di sfogo costituita dall’avanzata verso il Pacifico (la “frontiera”), alla fine dell’Ottocento lo sviluppo economico degli Stati Uniti si trova più direttamente coinvolto con le fortune degli interessi americani all’estero. È l’avvio di una nuova stagione per la politica estera del paese. Il nascente imperialismo americano si rivolge inizialmente all’America Latina, quindi all’Asia. La guerra contro la Spagna nel 1898 porta nella sfera di influenza statunitense Guam, Portorico, Cuba e le Filippine. Nel 1903 gli USA pilotano la secessione di Panama dalla Colombia e nel 1912 i marines sbarcano in Nicaragua. Nel 1914 e nel 1916 l’esercito conduce due spedizioni punitive nel Messico di Pancho Villa.

All’inizio della guerra mondiale il presidente Woodrow Wilson opta per la neutralità e per far assumere alla nazione americana una funzione mediatrice. E fino al 1917 gli Stati Uniti restano formalmente neutrali, ma, di pari passo con lo spostarsi della “frontiera”, e dello spirito che essa incarna, su scenari sempre più lontani dal paese, ha preso forza il senso di una missione civilizzatrice riservata al giovane e dinamico popolo statunitense: conclusa l’avanzata verso il Pacifico, il nazionalismo americano, sostenuto da concreti interessi economici, è ormai alla ricerca di nuove aree di influenza.

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