Filosofia
RICERCA FILOSOFICA E MEDIAZIONE DIDATTICA NELLE DIVERSE EPOCHE STORICHE
Entrare nel mondo dei pensieri di un filosofo implica acquisire la sua metodologia di ricerca (vedi articolo precedente) e di comunicazione (“mediazione”). Cercheremo, se pur sinteticamente, di ripercorrere le forme di ricerca e di mediazione didattica attraverso un “breve” viaggio nella storia della filosofia.
Un momento importante per la storia della Grecia è la trasformazione politica e culturale avvenuta in Atene con l’avvento della polis. La partecipazione di sempre più cittadini alla vita pubblica ha come necessaria conseguenza una nuova concezione di “virtù” (aretè) che non è più quella con cui si “nasceva” nella società classica di Omero ed Esiodo, identificabile con la forza, il coraggio, l’astuzia di Ulisse, ma è un qualcosa che si può apprendere e che ha come fine educativo la formazione del “buon cittadino”. “Virtuosi” si diventa e non si nasce è il motto che anima lo spirito dei sofisti, intellettuali itineranti alla ricerca di “clienti”, che per primi comprendono che per avere successo presso i giovani bisogna abbattere le barriere linguistiche e insegnare ad avere una maggiore conoscenza e padronanza delle tecniche del linguaggio stesso (la retorica, arte di persuadere mediante i discorsi, l’eristica, rendere forte l’argomento più debole, le antilogie, ad ogni tesi vera se ne può contrapporre un’altra altrettanto vera).
La riflessione sofistica sul linguaggio influenzerà il pensiero di Socrate (470-399 a.C.) e Platone (428-348 a.C.); Socrate critica l’uso che i sofisti hanno fatto del linguaggio e della parola, che non è strumento di persuasione (retorica) ma luogo di ricerca e confronto tra gli uomini. Il “discorso” sofistico diventa il “dialogo” socratico che ha come fine non formare il “buon cittadino”, l’uomo di potere nelle assemblee o nei tribunali, ma l'”uomo” che possa orientare con senso e valore la propria esistenza e discernere sempre il bene dal male. Socrate è “colui che sa di non sapere”, non il depositario di una qualche verità o virtù, ma il maestro che vuole insegnare all’uomo, tramite l’ironia e la maieutica, come “conoscere se stesso” è aver cura della propria anima. Attraverso il dialogo Socrate non “trasmette” il sapere, ma si limita a “comunicare” lo stimolo per la ricerca, lasciandoci così un modello di insegnamento valido ancora oggi. Anche Platone critica l’uso che del linguaggio fanno i sofisti e afferma la tesi che il fine ultimo della ricerca filosofica è la verità e il linguaggio deve servire solo ad avvicinare l’uomo alla conoscenza delle cose (Cratilo). Il maestro deve guidare “le anime” (psicagogia) alla ricerca della verità tramite non l’uso spregiudicato delle parole, ma attraverso l’arte “dialettica”, una tecnica razionale che permette di individuare le cose in se stesse, che conduce alle essenze delle cose, a quelle “idee” che altro non sono se non conoscenza. Si deve cercare non il “nome” delle cose, ma la loro “essenza”. Platone maestro sa il difficile momento che la polis attraversa, crisi politica, sociale, economica, e per questo motivo a Fedro che obietta che l'”oratore” non ha alcun dovere di comprendere ciò che effettivamente è giusto, ma solo ciò che appare, Platone-Socrate risponde che l’oratore non può rischiare di ingannare se stesso e deve sapere sempre esattamente che cosa sono il bene e il male.
Anche Aristotele (384-322 a.C.) dedica grande attenzione alle forme di comunicazione linguistica e ritiene che le forme del linguaggio verbale siano una creazione dell’uomo e che le parole stiano ad indicare “l’essere o il non essere di una data cosa”, ma cerca di superare la contrapposizione tra carattere naturale e convenzionale delle parole invitando i suoi discepoli ad andare oltre il modello delle cose (le idee) e giungere così alla “forma”, al “significato”, all’essenza vera e propria di esse. Aristotele, a differenza di Socrate e Platone, non adotta un sistema “aperto” e un filosofare problematico, ma organizza il discorso filosofico in un sistema “chiuso”, ovvero fatto di verità immutabili e connesse tra di loro. Se Platone aveva cercato anche di coniugare, attraverso il mito, la sapienza poetica con quella filosofica, Aristotele rifugge da qualsiasi rapporto con la poesia e concepisce la filosofia come “una speculazione rigorosamente razionale e specialistica (scholè)”.
Nell’età tardo-antica Agostino d’Ippona (354-430) fece un uso intenso del linguaggio orale sia prima che dopo la conversione, sia come professore che come predicatore, eppure si convinse che il linguaggio non è informativo, non comunica conoscenze, non è trasmissione di sapere. Le parole sono solo “segni”, ovvero “designano” determinati oggetti, ma non ci permettono di conoscere l’oggetto vero e proprio. Chi parla non trasmette conoscenza, ma effettua solo stimolazioni; il maestro umano non insegna, il vero maestro è solo Dio, che coronerà il risultato. Il De magistro, dialogo in cui affronta tale tema, ha per le sue conclusioni antiverbalistiche una certa attualità; se le parole non trasmettono il sapere, chiunque abbia il compito di insegnare non può e non deve limitarsi a parlare agli allievi e pretendere che questi ripetano i suoi discorsi. Chi vuole che altri apprendano deve innanzitutto assicurarsi di esprimersi in maniera accurata ed adeguata ai suoi interlocutori e farsi promotore di esperienza attiva, di iniziative di ricerca, di osservazione e intuizione da parte dell’allievo. Agostino, che prima di essere “maestro” è stato anche “allievo”, è consapevole delle difficoltà per un maestro umano di orientare alla conoscenza e di quanto questa possa essere ambigua, ma sa anche che l’accostamento alla verità è graduale e viene molto facilitato quando è sostenuto dall’entusiasmo degli allievi. La buona disposizione di chi ascolta condiziona in maniera decisiva il suo apprendimento e occorre, pertanto, provocare tale disposizione usando “benevolenza e comprensione”.
Nell’età moderna l’avvento della rivoluzione scientifica, l’affermarsi di un nuovo concetto di “scienza”, influenzerà le riflessioni sul linguaggio e sulla ricerca filosofica. Scienziati-filosofi come F. Bacone, G. Galilei, I. Newton, R. Descartes, G.W. Leibniz, pretenderanno un linguaggio scientifico rigoroso e perfetto, modellato sul linguaggio matematico, per fornire un’adeguata rappresentazione della realtà. Come “scientifico” e “rigoroso” sarà il loro approccio nella mediazione didattica.
G. Vico (1668-1744) di contro respingerà la tesi di un linguaggio perfetto e di un ordine matematico-geometrico nelle cose e ribadirà la “spontaneità” del linguaggio, espressione da sempre dei sentimenti più intimi dell’uomo. Alle tre età della storia corrispondono tre tipi differenti di linguaggio: nell’età degli “dei”, l’uomo si esprime con la mimica, nell’età degli eroi, l’uomo assume un linguaggio “metaforico”, le parole corrispondono non tanto alla realtà, quanto al modo di “sentirla”, e infine solo nell’età degli uomini essi ricorrono a un linguaggio più strutturato e scientifico, perché hanno perso la “fantasia” e la “poesia”. Anche il maestro, l’educatore deve tener conto dello sviluppo storico e ad esso adeguarsi, non impartendo mai verità assolute o astratte, ma “guidando” gli allievi a comprendere la lezione della storia.
Nel Novecento assistiamo invece a una vera e propria svolta linguistica, merito di filosofi come F. De Saussure (1857-1913), C.L. Strauss (1908-2009), L. Wittegenstein (1889-1951), per i quali il linguaggio è il primo se non l’unico problema filosofico e, pertanto, va studiato analiticamente e scientificamente nelle sue strutture. Nel Tractatus (1921) Wittegenstein affermerà che il “linguaggio rappresenta proiettivamente il mondo”, che ad ogni elemento della realtà corrisponde necessariamente un elemento del pensiero. Il filosofo di Cambridge tornerà poi sui suoi passi e affermerà che con il linguaggio non solo “denominiamo” qualcosa ma facciamo anche altro come pregare, esclamare, chiedere, tradurre, ecc. e “i problemi filosofici sorgono […] quando il linguaggio va in vacanza” e quando di fronte a parole come “essere”, “sostanza”, “oggetto”, ecc. “non cerchiamo il significato, ma il loro uso”, la loro essenza; ecco allora la filosofia come “terapia” delle malattie del linguaggio: “qual è il tuo scopo in filosofia? Indicare alla mosca la via d’uscita dalla bottiglia” (Ricerche filosofiche). Wittegenstein fu maestro elementare dal 1920 al 1926 e da questa sua esperienza è nato il Dizionario per la scuola elementare, in cui ricorrono termini in uso nella vita quotidiana, riferiti alla casa, alla cucina, alla stalla, ecc., questo perché il “maestro” aveva compreso che prima ancora di insegnare o far partorire una qualche verità agli allievi, bisogna renderli padroni della lingua di tutti i giorni; l’educazione è essenzialmente educazione linguistica. Perché più ricco è il linguaggio che si domina, più estesa è la realtà che si comprende.